ADHD e trattamento

ADHD

DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITÀ

Secondo l’A.I.D.A.I., Associazione Italiana Disturbi Attenzione e Iperattività (2012):
“Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente”.

Secondo l’A.I.D.A.I. (Associazione Italiana Disturbi Attenzione e Iperattività), l’ADHD, è un “disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente”.

Anche nei criteri diagnostici del DSM-5, l’ADHD è considerato come un “disturbo”. Secondo tale manuale diagnostico, per porre diagnosi, devono essere presenti almeno 6 sintomi di disattenzione (per es. divagazione dal compito, mancanza di perseveranza, difficoltà a mantenere l’attenzione, difficoltà ad ascoltare, difficoltà a pianificare le attività, tendenza a perdere materiali e oggetti) e/o iperattività-impulsività (eccessiva attività motoria in momenti in cui non è opportuna, tendenza a dimenarsi o a tamburellare con le dita, loquacità eccessiva, impulsività nelle risposte, difficoltà a rispettare i turni), per un minimo di sei mesi e in almeno due contesti diversi; inoltre, alcuni sintomi possono essere presenti prima dei 12 anni anni di età ed è necessario che compromettano il funzionamento sociale, scolastico e/o lavorativo.

Se, negli ultimi 6 mesi, un soggetto presenta almeno 6 sintomi di disattenzione, ma meno di 6 sintomi di iperattività-impulsività, viene posta diagnosi di ADHD con disattenzione predominante; se presenta esclusivamente almeno 6 sintomi di iperattività-impulsività, ma meno di 6 sintomi di disattenzione, allora viene posta diagnosi di ADHD con iperattività-impulsività predominante; infine, se il soggetto presenta entrambe le problematiche, si pone diagnosi di ADHD combinato.

Parlare dell’ADHD come di un disturbo significa considerarlo un’entità clinica ben definita, con sintomi caratteristici ben distinguibili da quelli di altre patologie. In realtà, vista la complessità dei quadri clinici che si presentano ai nostri occhi come ADHD, sarebbe più opportuno parlare di un insieme di sintomi che possono avere alla base diverse cause. La diagnosi di ADHD raccoglie ormai i più svariati quadri clinici e questo riflette la mancanza di certezze sulla sua eziologia. Poiché il numero di bambini con tale diagnosi va aumentando, il rischio è che aumenti, di pari passo, il numero di bambini sottoposti a un trattamento farmacologico, non sempre necessario.

Molti dei sintomi presentati da questi bambini (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, irritabilità o crisi di rabbia, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme) sono gli stessi sintomi presenti in bambini che hanno vissuto un evento traumatico e che sviluppano un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). Allo stesso modo, bambini che hanno sperimentato traumi relazionali precoci importanti, come i bambini precocemente istituzionalizzati e/o adottati, presentano difficoltà a concentrarsi, a pianificare, iniziare o completare un compito, disturbi nella regolazione delle funzioni corporee di base, come disturbi del sonno e dell’alimentazione, iper-reattività agli stimoli sensoriali e allarme eccessivo per stimoli minacciosi, sia ambientali sia relazionali. L’iper-attivazione riscontrata nei bambini con diagnosi di ADHD è clinicamente indistinguibile dall’iper-attivazione manifestata dai bambini traumatizzati, per cui l’ipotesi è che molti dei bambini che ricevono una diagnosi di ADHD siano in realtà dei bambini con PTSD cronico o bambini che abbiano sperimentato traumi relazionali. Tale ipotesi sembra acquisire maggior valore se si pensa che, in molti bambini tale stato di iper – attivazione è evidente soprattutto in situazioni particolari, che potrebbero essere considerate, quindi, dei fattori scatenanti ambientali per la riattivazione di esperienze traumatiche.

Quando un bambino è esposto a un’esperienza traumatica significativa o vive in un contesto relazionale traumatico, il suo corpo si prepara ad affrontare la minaccia attivando il sistema nervoso autonomo (SNA), conosciuto anche come sistema nervoso vegetativo o viscerale, che controlla le cosiddette funzioni vegetative, al di fuori del controllo volontario: l’attivazione del sistema nervoso autonomo porta alle risposte primitive di attacco (fight) e fuga (flight). Queste risposte possono permanere per anni dopo la fine del trauma e produrre sintomi simili a quelli tipicamente diagnosticati come ADHD: iperattività motoria, ansia, disturbi del sonno, tachicardia e pressione sanguigna elevata. Le situazioni di minaccia alla sopravvivenza attivano risposte biologicamente evolute per rispondere al pericolo, per cui tutte le energie e, di conseguenza, tutta l’attenzione sono impiegate per salvaguardarsi. Secondo questa visione, alcuni sintomi dell’ADHD, come l’iper-attivazione, potrebbero far parte di una strategia finalizzata all’auto-conservazione, mentre altri, come la difficoltà di concentrazione, potrebbero essere considerati come gli “effetti collaterali” dell’utilizzo di tale strategia.

In conclusione, si osserva spesso, nella pratica clinica, che i sintomi sviluppati in seguito a traumi, singoli o ripetuti, possono essere erroneamente confusi con la diagnosi di ADHD ma, senza dubbio, sono necessarie ulteriori indagini scientifiche per migliorare la diagnosi differenziale tra sindrome ADHD di natura post-traumatica e sindrome ADHD di natura neurobiologica.

La ricerca suggerisce, inoltre, che lo sviluppo cerebrale dipende dall’interazione tra predisposizione genetica ed esperienze di relazione. Quando un bambino non dispone di una strategia sicura e ben organizzata per far fronte alle situazioni che gli incutono timore o ansia, diverse informazioni provenienti da fonti incompatibili vengono ritenute ugualmente rilevanti. Questo è ciò che succede anche nell’ADHD: il bambino non riesce a differenziare tra stimoli rilevanti e stimoli irrilevanti per sé, in un determinato momento. Come è stato osservato, però, se è presente un adulto di riferimento a regolare gli stati emotivi e i comportamenti del bambino con ADHD, la difficoltà di concentrazione si riduce. I diversi stili di attaccamento tra genitori e bambino (relazione sicura, insicura o disorganizzata), infatti, rappresentano le cornici all’interno delle quali i piccoli imparano  a nominare, riconoscere e regolare emozioni e comportamenti. Come afferma l’AIDAI , quindi, quando parliamo di ADHD dobbiamo parlare di regolazione.

Lo stile di attaccamento evitante, in cui il genitore distanzia i bisogni del bambino ed è poco coinvolto emotivamente nella relazione, porta il bambino ad essere autosufficiente nella regolazione degli affetti, che vengono minimizzati e messi da parte e l’attenzione viene rivolta esclusivamente all’ambiente. L’iperattività potrebbe, quindi, rappresentare una strategia di esplorazione compulsiva, attivata per far fronte ai sentimenti di solitudine, impotenza e rabbia. Lo stile di attaccamento ambivalente, in cui il genitore è discontinuo nella risposta ai bisogni del bambino e imprevedibile nelle sue manifestazioni affettive e comportamentali, è caratterizzato da una regolazione in eccesso delle emozioni, che vengono manifestate in maniera enfatizzata. In questi casi l’iperattivita avrebbe la finalità di controllare i comportamenti dei genitori per aumentare il livello di prevedibilità. La disorganizzazione dell’attaccamento, causata da un genitore con lutto e traumi non elaborati, è connotata da senso di minaccia e pericolo, per cui la regolazione delle emozioni è instabile, caotica e contradditoria, così come la qualità dell’attenzione. Diversi studi dimostrano, ormai, che lo stile di attaccamento sicuro, in cui il genitore è sensibile e responsivo di fronte ai bisogni del bambino, è una modalità relazionale che promuove una buona regolazione degli affetti e dei comportamenti, deficitaria, invece, nei bambini diagnosticati con ADHD, molti dei quali, infatti, presentano, secondo diverse ricerche, uno stile di attaccamento insicuro (evitante o ambivalente) o disorganizzazione dell’attaccamento.

Nell’ambito del contesto familiare, inoltre, si creano i presupposti perché i bambini possano sperimentare il gioco fisico, motorio, come quello della lotta. Secondo il neuroscienziato Jaak Panksepp, che ha studiato nei ratti i circuiti cerebrali che si attivano durante il gioco, l’abbondanza di gioco fisico riduce l’impulsività di questi animali nel corso dello sviluppo. Nonostante si conoscano le alterazioni anatomiche a carico delle regioni frontali del cervello alla base di questa disfunzione nella regolazione dei comportamenti, solo il 5% dei bambini con ADHD le presenta, inoltre spesso l’ADHD costituisce un problema con l’ingresso alla scuola primaria, momento in cui viene fortemente inibita negli scolari l’attività di gioco in movimento, a favore delle attività al banco. Anche Panksepp afferma, quindi, che la maggior parte di questi bambini non abbia disturbi cerebrali, bensí un sistema del gioco maggiormente sviluppato, che causerebbe forti problemi di adattamento sociale, nel momento in cui venisse fortemente inibito dal contesto. Questo potrebbe spiegare anche perché, spesso, i genitori riferiscono un’associazione importante tra ADHD e massivo utilizzo dei videogames, giochi che portano ad una drastica riduzione dell’attività motoria.

Il lavoro terapeutico che offriamo alle famiglie porta, da una parte, all’elaborazione delle esperienze di vita traumatiche e, dall’altra, a modificare lo stile della relazione tra il bambino e i suoi genitori, attraverso l’introduzione di esperienze relazionali correttive e adattive.

Abbiamo spesso lavorato con bambini che, pur presentando una diagnosi di ADHD, avevano vissuto esperienze traumatiche di vita e, dopo un opportuno trattamento psicoterapeutico, affrontando le memorie traumatiche con l’EMDR, miglioravano notevolmente nella sintomatologia. Il bambino, inoltre, deve poter disporre di una figura di accudimento stabile e coerente, in grado di soddisfare i suoi bisogni di conforto e protezione, poiché solo così impara a organizzare le informazioni, a livello sia cognitivo sia affettivo, ed è in grado di integrare tali informazioni fra loro (sicurezza nell’attaccamento).

Nel nostro lavoro, pertanto, non solo ci occupiamo del bambino con ADHD, ma anche dei suoi genitori e del “bambino” insicuro o traumatizzato, che essi portano ancora dentro di sé. Il nostro modello d’intervento terapeutico prevede l’integrazione del metodo EMDR, per l’elaborazione dei traumi relazionali precoci e dei traumi secondari alle manifestazioni dell’ADHD (per es. frustrazioni scolastiche o sociali subite), con le strategie terapeutiche d’impronta cognitivista e/o di tipo neuropsicologico, tutti metodi che sono di comprovata efficacia. L’EMDR è utilizzato anche come strumento per rinforzare le aree di risorsa interiore, all’interno di un lavoro sull’auto-regolazione, sull’autostima, sul rinforzo positivo rispetto ai successi, che fa parte delle strategie cognitivo-comportamentali.

La nostra attività clinica prevede anche il coinvolgimento di insegnanti ed educatori: tale collaborazione è fondamentale per un contenimento iniziale dei comportamenti problematici e per la generalizzazione dei risultati del trattamento.

Se ritenuto necessario, dopo un’accurata fase di valutazione, la psicoterapia verrà affiancata ad un training su attenzione ed impulsivita o ad un trattamento per eventuali difficoltà scolastiche associate.

Per lavorare nel modo descritto, durante e dopo la fase di valutazione iniziale, ogni caso viene concettualizzato alla luce della storia dei traumi e dello stile di attaccamento del bambino e dei suoi genitori; in seguito, si identificano le risorse interiori e si valuta se trattare con EMDR, oltre al bambino, anche uno o entrambi i genitori, qualora si riscontrino, nella loro storia, dei traumi relazionali precoci e/o dei traumi secondari all’ADHD del figlio.

Nel trattamento di psicoterapia integrato con EMDR, notevole rilevanza assume lo spazio dedicato al gioco in movimento, che viene proposto anche in sessioni interattive con i genitori.

Generalmente, fino all’adolescenza, preferiamo non ricorrere agli psicofarmaci, se non in casi molto gravi, in cui è lo stesso trattamento psicoterapeutico ad essere completamente ostacolato. Quando i ragazzi arrivano all’osservazione in adolescenza, invece, è più frequente la scelta di ricorrere a psicofarmaci, per il trattamento di altre problematiche che si sono associate nel tempo all’ADHD ma, ad ogni modo, anche in questa fase di crescita, ogni terapia farmacologica è intrapresa con notevole cautela.

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